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Prezzi al consumo, aumento dell’11,8% su base annua

I prezzi al consumo aumentano, sia su base mensile sia su base annua. A dare la conferma di quella che è più che una sensazione da parte dei consumatori, è l’Istat. L’Istituto di Statistica ha infatti pubblicato i dati provvisori relativi ai prezzi al consumo a novembre 2022. Secondo le stime preliminari, nel mese in oggetto l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, registra un aumento dello 0,5% su base mensile e dell’11,8% su base annua (come nel mese precedente). Si tratta di un’accelerazione dei prezzi più leggera rispetto ai mesi passati.

Inflazione stabile su base tendenziale

L’inflazione rimane stabile su base tendenziale a causa, principalmente, degli andamenti contrapposti di alcuni aggregati di spesa: da un lato rallentano i prezzi dei Beni energetici non regolamentati (da +79,4% a +69,9%), degli Alimentari non lavorati (da +12,9% a +11,3%) e dei Servizi relativi ai trasporti (da +7,2% a +6,8%); dall’altro accelerano i prezzi degli Energetici regolamentati (da +51,6% a +56,1%), dei Beni alimentari lavorati (da +13,3% a +14,4%), degli Altri beni (da +4,6% a +5,0%) e dei Servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (da +5,2% a +5,5%). L’“inflazione di fondo”, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, accelera da +5,3% a +5,7%; quella al netto dei soli beni energetici sale da +5,9% a +6,1%.

I prezzi dei beni rallentano la corsa verso l’alto

Su base annua, i prezzi dei beni mostrano un lieve rallentamento (da +17,6% a +17,5%), mentre rimangono stabili quelli dei servizi (+3,8%); si ridimensiona, quindi, di poco, il differenziale inflazionistico negativo tra questi ultimi e i prezzi dei beni (da -13,8 di ottobre a -13,7 punti percentuali). I prezzi dei Beni alimentari, per la cura della casa e della persona registrano una modesta accelerazione su base tendenziale (da +12,6% a +12,8%); rallentano, al contrario, quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto (da +8,9% a +8,8%). L’aumento congiunturale dell’indice generale è dovuto prevalentemente ai prezzi dei Beni energetici regolamentati (+3,0%), degli Energetici non regolamentati (+2,2%), degli Alimentari lavorati (+1,5%) e dei Beni non durevoli (+0,6%); in calo invece, a causa per lo più di fattori stagionali, i prezzi dei Servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (-0,4%) e dei Servizi relativi ai trasporti (-0,2%). L’inflazione acquisita per il 2022 è pari a +8,1% per l’indice generale e a +3,7% per la componente di fondo.

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Moda a Milano e Lombardia, che valore ha il settore?

Le imprese del settore della moda con sede a Milano, Monza e Lodi hanno registrato nel 2021 ricavi delle vendite per circa 14,7 miliardi di euro, una cifra pari a oltre la metà del fatturato lombardo del settore e al 17% del totale nazionale, che risulta superiore agli 86 miliardi di euro. Milano è ampiamente la prima provincia italiana per fatturato del settore moda con 13,5 miliardi di euro, distanziando nettamente Vicenza (6,5 miliardi), Napoli (4,4 miliardi) e Firenze (4,2 miliardi). Le imprese della moda basate a Monza fatturano invece circa 1,1 miliardi di euro, 46 milioni quelle di Lodi. Sono i dati decisamente positivi del comparto della moda italiana in generale e di quella lombarda in particolare, in base a dati ufficiali elaborati dalla Camera di commercio di Milano MonzaBrianza Lodi.

Milano, Monza Brianza e Lodi regine di export

Nell’area di Milano Monza Brianza Lodi, l’abbigliamento costituisce la voce principale dell’export: nel primo semestre 2022 i mercati esteri hanno intercettato oltre 2,2 miliardi di euro in valore (42,4% dei flussi totali), seguiti per rilevanza dai prodotti in cuoio, pelle, borse e accessori con 1,1 miliardi (21,8%) e dalle calzature con oltre 900 milioni di esportazioni (17,4%). Seguono quindi i prodotti tessili (7,5%), in particolare maglieria (5,7%) e tessuti (3,7%). Il baricentro dei mercati è spostato in misura preponderante verso le aree extraeuropee, dove le mete di destino principali sono Asia (38,4%) e America (19,3%), mentre Africa e Oceania sono residuali per la struttura delle rotte geografiche. Il mercato Europeo (39,8%) evidenzia una preponderanza dell’Unione europea (22,4%) rispetto alle piazze esterne allo spazio comune (17,4%). Nelle prime tre posizioni si collocano Stati Uniti (16,3%), Cina (10,7%) e Corea del Sud (8,2%), mentre il primo mercato europeo, ossia la Francia (8%), si posiziona al quarto posto della graduatoria, seguita da Svizzera (7%) e Regno Unito (5,9%), i partner principali esterni all’area comunitaria. In generale, le esportazioni di abbigliamento costituiscono la voce di acquisto principale di tutti i mercati: ciò è particolarmente rilevante se consideriamo Svizzera, Regno Unito e Hong Kong verso i quali oltre la metà dei flussi esportativi è costituita dall’abbigliamento, fenomeno che interessa anche l’export diretto in Germania dove rappresenta circa la metà degli acquisti dei prodotti della moda. Sempre la Svizzera è inoltre interessata da una significativa quota di export di calzature, oltre un quinto delle esportazioni. La Corea del Sud è invece una piazza particolarmente interessante per le esportazioni di cuoio, pelle, borse e accessori che incidono per circa il 44% sul totale export diretto verso il Paese, merceologie altrettanto rilevanti per il Giappone, dove incidono per il 37,7%. 

Imprese e addetti del comparto

Nel 3° trimestre del 2022, a Milano risultano attive 11.102 imprese nel comparto della moda, rappresentano il 5,6% delle imprese del settore moda nel nostro Paese. A Milano le oltre 11 mila imprese danno lavoro a 93.532 persone e creano un giro d’affari pari a 13,5 miliardi di euro (dato riferito alle sole società di capitali), che pesa il 15,6% sul giro d’affari complessivo generato dalle imprese del settore moda in Italia, che è di 86 miliardi di euro. In Italia le imprese del settore moda sono 199.442, danno lavoro a 787.166 persone e creano un giro d’affari pari a 86,7 miliardi di euro. In Lombardia sono 28.201 le imprese attive e danno lavoro a 180.305 persone e creano un giro d’affari pari a 26 miliardi di euro. La maggior parte delle imprese del settore opera nell’ambito della produzione e del commercio al dettaglio di articoli di abbigliamento. Per quanto riguarda la forza lavoro, il settore della moda conta complessivamente 103mila addetti nell’area accorpata di Milano Monza Brianza e Lodi (93.532 a Milano), pari a oltre la metà di quelli lombardi e al 13,1% del totale nazionale; di questi, 37mila operano nei comparti industriali del fashion (30.962 a Milano), l’8,2% degli addetti italiani. La maggiore concentrazione di lavoratori si registra nella confezione e nel commercio al dettaglio di articoli di abbigliamento.

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Due italiani su tre hanno lo Spid

Oggi il 63% della popolazione maggiorenne è in possesso di Spid (Sistema Pubblico di Identità Digitale), ovvero due italiani su tre. Si tratta di un incremento del 30% rispetto alla medesima rilevazione condotta a settembre 2021. Tuttavia, nonostante la maggiore diffusione, la distribuzione non è omogenea né per fasce d’età né per area geografica. Tutti i ragazzi della fascia 18-24 anni possiedono Spid, situazione molto diversa tra gli oltre 75 anni dove meno di 1 su 4 ha attivato la propria identità digitale. Anche a livello geografico, ci sono molte differenze: si passa dal record del Lazio, dove il 74% della popolazione ha SPID, seguito da Lombardia (70%) ed Emilia-Romagna, Campania e Piemonte (62%), fino agli ultimi posti di Calabria (54%), Marche (53%) e Molise (con il 52%). In Italia, tuttavia, non esiste solo SPID, ma cresce anche la diffusione della Carta d’Identità Elettronica: 31,3 milioni di cittadini sono in possesso del documento, +29% rispetto a settembre 2021. Questi livelli di diffusione posizionano l’Italia già oltre gli obiettivi definiti nel PNRR per il 2024, raggiunti quindi con ben due anni di anticipo. 

Cosa succede in Europa

A livello europeo, i sistemi di identità digitale che negli scorsi anni stavano attraversando una fase di rapido sviluppo hanno continuato il percorso di consolidamento e diffusione tra utenti e aziende, anche se il ritmo di crescita sta progressivamente rallentando. Analizzando i sistemi digitali non basati su Smart Card, si passa dal 95% della popolazione raggiunto in Olanda con il sistema DigiD, seguito dal 79% in Norvegia e il 78% in Svezia con BankID, fino al 9% raggiunto in Repubblica Ceca con MojeID. L’Italia, con Spid (54% del totale della popolazione), raggiunge buoni risultati di diffusione, con tassi di crescita paragonabili a quelli del sistema francese FranceConnect (59%) e del belga itsme (56%). Nel settore si sta facendo strada quella che potrebbe essere una vera e propria rivoluzione, spinta anche dal cambio normativo in atto: il mercato dell’identità digitale sta migrando verso il concetto di wallet, che consente di integrare credenziali, certificazioni, pass e altri attributi in un unico strumento nelle mani degli utenti. Sono i risultati della ricerca dell’Osservatorio Digital Identity della School of Management del Politecnico di Milano, presentata durante il convegno “Digital Wallet: identity (r)evolution”.

Gli accessi a Spid

Per Spid prosegue la crescita degli accessi osservata negli scorsi anni, anche se si è ancora lontani da un utilizzo strutturale e quotidiano. Nel 2022 SPID è stato mediamente utilizzato dagli italiani 25 volte l’anno (crescita del 14%), contro le 22 del 2021 e le 9 del 2020. Emerge un utilizzo sempre meno trainato da obblighi normativi, come l’accesso al cashback o al proprio greenpass, e sempre più spinto in modo “organico” da servizi chiave per il cittadino. Nel 2022 ci sono stati importanti sviluppi anche sul piano normativo. È stato definito il ruolo dei soggetti aggregatori di servizi privati, semplificando il processo di adesione per le aziende da un punto di vista amministrativo e tecnologico. Sono state emanate linee guida per i gestori di attributi qualificati (come albi professionali e università), che potranno certificare qualifiche da integrare nel set di dati presente in Spid. 

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Casa, come la vivono gli italiani?

La casa sempre più centrale nell’esistenza dei nostri connazionali: lo dice la quinta edizione di CasaDoxa 2022, l’Osservatorio nazionale sugli italiani e la casa di BVA Doxa che fotografa i cambiamenti in atto nella società e nelle case degli italiani, intervistando ogni anno un campione rappresentativo di 7.000 famiglie.

Spazi e voglia di cambiare

Quali sono le principali evidenze emerse dall’Osservatorio? Cosa vogliono gli italiani in merito alla casa? Rispetto agli anni precedenti, 1 milione di famiglie in più si è messo in movimento per cambiare la propria abitazione e 700.000 famiglie in più si sono dotate di una seconda casa, in affitto o in proprietà.
Gli italiani cercano più spazi, interni ed esterni con un incremento del 36% che desidera una stanza in più e del 12% che vuole un terrazzo o un giardino, dichiarandosi disponibili ad allontanarsi dal centro, pur di avere più spazio. C’è una maggiore apertura nei confronti di soluzioni innovative per l’approvvigionamento energetico, con 6 persone su 10 che si dicono propense ad aderire ad una comunità energetica nel proprio condominio o nel quartiere, qualora questa si costituisse.

Attenzione all’ambiente (e alla bollette)

Un’altra novità che emerge dalla ricerca è che i nostri connazionali si dichiarano sempre più attenti ai temi dell’ambiente. Una sensibilità che si traduce in gesti concreti e quotidiani: il 78% dichiara di spegnere le luci ogni volta che esce da una stanza (+18% rispetto al 2019); il 72% utilizza lavastoviglie e lavatrici solo quando sono a pieno carico (+24%); il 66% sceglie prodotti ad alta efficienza energetica (+21%) e il 57% tiene il riscaldamento al minimo (+34%). Il dato più significativo è che il 68% degli italiani passa più tempo in casa facendo anche attività che prima non faceva: +33% a pranzo, +36% a cena, +42%, a guardare film e serie tv, +31% a lavorare e +26% a fare fitness e tenersi in forma. “Tutti i cambiamenti che abbiamo dovuto affrontare – ha detto Paola Caniglia, Head of Living & Retail di BVA Doxa – hanno ridisegnato le nostre case, il nostro modo di viverle e, soprattutto, la nostra relazione con esse. La casa ha assunto una forte rilevanza perché diventa il fulcro del nostro nuovo progetto esistenziale. Una diversa attenzione al tempo, al lavoro, al digitale, alla sostenibilità hanno messo in discussione i nostri tradizionali percorsi di vita e ci indica che è in corso un ribaltamento della prospettiva gravitazionale casa-lavoro”.

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Come sarà il futuro dello smart working? In calo ora e in crescita nel 2023

Il fatto che le limitazioni legate alla pandemia siano pressochè tutte rientrate ha fatto sì che il lavoro da remoto sia utilizzato in maniera meno consistente rispetto lo scorso anno. Tuttavia, i numeri restano importanti: gli smart worker sono oggi circa 3,6 milioni, quasi 500 mila in meno rispetto al 2021, con un calo in particolare nella Pubblica Amministrazione e nelle PMI, mentre si rileva una leggera ma costante crescita nelle grandi imprese che, con 1,84 milioni di lavoratori, contano circa metà degli smart worker complessivi. Per il prossimo anno si prevede un lieve aumento fino a 3,63 milioni, grazie al consolidamento dei modelli di smart working nelle grandi imprese e a un’ipotesi di incremento nel settore pubblico.

Presente nel 91% delle grandi imprese

Lo smart working è ormai presente nel 91% delle grandi imprese italiane (era l’81% nel 2021), mediamente con 9,5 giorni di lavoro da remoto al mese e progetti che quasi sempre agiscono su tutte le leve che caratterizzano questo modello. Una tendenza opposta si riscontra nelle PMI, in cui lo smart working è passato dal 53% al 48% delle realtà, in media per circa 4,5 giorni al mese. A frenare in queste realtà è la cultura organizzativa che privilegia il controllo della presenza e percepisce lo smart working come una soluzione di emergenza. Rallenta anche la diffusione nella PA, che passa dal 67% al 57% degli Enti, con in media 8 giorni di lavoro da remoto al mese. In questo caso a pesare sono soprattutto le disposizioni del precedente Governo che hanno spinto a riportare in presenza la prestazione di lavoro, ma per il futuro si prevede un nuovo aumento. E’ uno dei dati contenuti nella ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano.

Il risparmio sui costi energetici del lavoro a distanza

L’impatto dello smart working è sempre più positivo per effetto dell’aumento dei costi energetici: un lavoratore che operi due giorni a settimana da remoto risparmia in media circa 1.000 euro all’anno per effetto della diminuzione dei costi di trasporto. Nella stessa ipotesi di due giorni alla settimana di lavoro da remoto l’aumento dei costi dei consumi domestici di luce e gas può incidere però per 400 euro l’anno riducendo il risparmio complessivo a una media di 600 euro l’anno. Lo smart working consente una riduzione dei costi potenzialmente più significativa per le aziende: consentire ai dipendenti di svolgere le proprie attività lavorative fuori della sede per 2 giorni a settimana permette di ottimizzare l’utilizzo degli spazi isolando aree inutilizzate e riducendo i consumi, con un risparmio potenziale di circa 500 euro l’anno per ciascuna postazione. Se a questo si associa la decisione di ridurre gli spazi della sede del 30%, il risparmio può aumentare fino a 2.500 euro l’anno a lavoratore.

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Per il Welfare experience è l’ora della digitalizzazione 

Dalla sfida posta dalla digitalizzazione non è esente il mondo del lavoro e del welfare aziendale. Secondo i dati di Sodexo Benefits & Rewards Services Italia, anche i servizi di welfare devono infatti adattarsi a questa trasformazione. Il digitale è un elemento ormai sempre più diffuso e centrale nella vita quotidiana di lavoratori e consumatori. Non stupiscono, ad esempio, le stime pubblicate da Desi, il monitor della Commissione europea che analizza lo stato di digitalizzazione dei Paesi membri, secondo il quale l’Italia nel 2022 vanta il primato del Paese che in Europa più sta crescendo su questo fronte. 

Coniugare la flessibilità dei buoni pasto con una user experience digitale

Nel 2022 il welfare aziendale ha visto importanti novità, in particolare dal punto di vista normativo, ma che già nel biennio precedente aveva registrato dinamiche di cambiamento significative dal punto di vista dei modelli organizzativi. Le aziende infatti sono sempre più interessate a integrare piattaforme digitali per la gestione dei servizi di welfare e benefit offerti ai propri collaboratori, in grado di consentire un facile accesso da remoto. Un esempio di questa integrazione è Sodexo Multi, la smart card di Sodexo che coniuga tutta la flessibilità dei buoni pasto con una user experience digitale e di pagamento rinnovata.

Soluzioni smart per una connessione più stretta tra azienda e dipendenti

“Investire nella digitalizzazione del welfare, come ci raccontano i dati che abbiamo raccolto, rappresenta una grande opportunità per le imprese -commenta Anna Maria Mazzini, Chief Growth Officer di Sodexo Benefits & Rewards Services Italia-, poiché i nuovi strumenti digitali a nostra disposizione consentono di creare una connessione sempre più stretta tra azienda e dipendenti, semplificando notevolmente i processi per le HR, nonché la fruizione per i dipendenti, e intercettando in modo innovativo i nuovi bisogni delle persone e degli utenti. Sono proprio i nostri collaboratori, ormai perfettamente a loro agio nell’utilizzo quotidiano di app e piattaforme digitali, a richiedere soluzioni smart di questo tipo”.

I fringe benefit supportano la capacità di spesa di famiglie e imprese

Negli ultimi anni la normativa ha evidenziato la volontà del legislatore a incentivare l’utilizzo dei fringe benefit per i lavoratori, che possono comporre liberamente il proprio paniere di beni e servizi da acquistare attraverso il budget assegnato. Grazie al Decreto Aiuti bis varato dal Governo e recentemente approvato dal Parlamento, riferisce Adnkronos, la soglia di esenzione fiscale dei fringe benefit poi è ora pari a 600 euro. E quest’anno il Governo ha previsto un bonus, anch’esso interamente deducibile, per il carburante. Per i lavoratori, i fringe benefit rappresentano, invece, un ammontare non soggetto a contribuzione né a prelievo fiscale. Un modo per le aziende di supportare, in una congiuntura economica delicata come quella attuale, la capacità di spesa di famiglie e imprese.

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Mutui in Europa: Italia bene sui tassi variabili, meno sui fissi

Come sono i mutui in Italia rispetto a quelli degli altri Paesi d’Europa? Convenienti in particolare le condizioni per quelli variabili: lo riferisce una recentissima analisi di Facile.it e Mutui.it. Discorso completamente diversi per i tassi fissi, sempre secondo il report, che evidenzia che siano peggiori, ad esempio, se confrontati con quelli di Francia, Spagna, Portogallo e molti altri. L’indagine si basa sulla rilevazione dell’andamento degli indici registrati online in 12 Paesi a inizio settembre, considerando una richiesta di finanziamento di 120.000 euro da restituire in 20 anni per acquistare un immobile del valore di 180.000 euro. 

L’andamento dei mutui

Guardando al tasso fisso, in Italia questo tipo di finanziamento viene proposto con un TAN a partire dal 2,89%, valore in netto aumento rispetto allo scorso anno, quando gli indici partivano intorno allo 0,80%. Se dodici mesi fa gli aspiranti mutuatari italiani potevano godere dei tassi fissi più bassi tra quelli rilevati, oggi, rispetto ai Paesi UE analizzati, l’Italia si posiziona nei gradini bassi della classifica; solo Grecia e Germania fanno peggio, con indici fissi che partono, rispettivamente, da 3,20% e 3,12%. Valori nettamente migliori per Spagna e Portogallo, stati che tradizionalmente avevano tassi simili ai nostri e che invece oggi offrono indici più bassi; i TAN rilevati partono, rispettivamente, da 2% e 2,10%. Situazione ancor più rosea per gli aspiranti mutuatari della Francia, che possono accedere alle migliori condizioni tra quelle offerte dai Paesi oggetto di analisi, con TAN fissi che partono addirittura da 1,80%.

Meglio in Svizzera, peggio nel Regno Unito

Allargando l’analisi all’Europa geografica emerge un quadro variegato: in Svizzera, ad esempio, i TAN sono inferiori a quelli italiani e, per un tasso fisso, partono da 2,48%, mentre va decisamente peggio oltremanica, nel Regno Unito, dove partono da 3,76%. Sul fronte del tasso variabile (considerando sempre il TAN), invece, l’Italia mantiene il suo primato e nessuno, tra i Paesi analizzati, offre un tasso iniziale migliore. Nel Belpaese i tassi partono da 1,32%, mentre fuori dai confini nazionali gli indici sono più alti; 1,87% in Portogallo, 2% in Svizzera, 2,34% nel Regno Unito. Va detto però che, a differenza del fisso, le distanze tra i Paesi rispecchiano solo la prima rata e, considerata la variabilità dei tassi, potrebbero modificarsi nel tempo a seconda dell’andamento dell’indice a cui ciascun mutuo è collegato.

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Imprese e lavoro: mancano candidati per 227mila assunzioni 

Nel mese di settembre le assunzioni per cui le imprese dichiarano difficoltà di reperimento salgono a 227mila. Le cause prevalenti? Si confermano la ‘mancanza di candidati’ (27,8%) e la ‘preparazione inadeguata’ (11,9%), e il mismatch riguarda soprattutto gli operai specializzati (56,8%), i conduttori di impianti fissi e mobili e le professioni tecniche (47%).  Le figure di più difficile reperimento sono invece Meccanici artigianali, montatori, riparatori e manutentori (65,8%), Artigiani e operai specializzati nelle costruzioni (65,6%), ma anche tecnici in campo ingegneristico (64,1%), tecnici della gestione dei processi produttivi di beni e servizi (59,9%), tecnici della salute (54,5%), specialisti in scienze matematiche, informatiche, chimiche, fisiche e naturali (53,3%) e ingegneri (46,5%). A delineare questo scenario è il Bollettino del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere e Anpal. 

In leggero calo le assunzioni previste

A incontrare le maggiori difficoltà di reperimento sono le imprese delle regioni del Nord-Est, dove sono difficili da reperire il 49% delle figure ricercate, seguite da Nord-Ovest (43%), Centro (42,1%), Sud e Isole (39,3%). Secondo Excelsior sono 524mila i lavoratori ricercati dalle imprese per il mese di settembre, 2mila in meno (-0,4%) rispetto a quanto programmato un anno fa. In frenata il comparto manifatturiero (-13,6%, 15mila posti in meno rispetto a settembre 2021) e soprattutto il commercio (-30,0%, -25mila). Su queste dinamiche sta incidendo il continuo rialzo dei costi dell’energia e delle materie prime, con i relativi effetti su inflazione e consumi. Per quanto riguarda il trimestre settembre-novembre 2022, le assunzioni previste superano di poco 1,4milioni, -3,0% rispetto al 2021.

Mismatch tra domanda e offerta: +7% rispetto al 2021

La difficoltà di reperimento interessa il 43,3% delle assunzioni programmate (+7% rispetto a settembre 2021), quando il mismatch tra domanda e offerta era pari al 36,4% dei profili ricercati. Quasi un’assunzione su tre (31,7%) riguarda giovani fino a 29 anni d’età. Continua però l’andamento positivo delle costruzioni: 57mila le entrate programmate nel mese (+37,3% annuo), e 154mila per il trimestre settembre-novembre (+30,4%). Sono negative invece le previsioni per la maggior parte dei comparti manifatturieri, che stanno programmando 99mila entrate nel mese e 275mila nel trimestre, con una flessione tendenziale rispettivamente del -13,6% e -13,4%.

Settori in frenata per Industria e Servizi

Tra i settori in frenata, soprattutto le Industrie tessili, dell’abbigliamento e calzature (-31,8% annuo e -31,2% nel trimestre), le Industrie metallurgiche e dei prodotti in metallo (-27,4%, -25,6%), le Industrie meccaniche ed elettroniche (-18,2%, -19,9%) e le Industrie della carta, cartotecnica e stampa (-11,4%, -14,6%). Sono invece 368mila i contratti di lavoro programmati dalle imprese dei servizi (-0,5% su settembre 2021), e oltre 976mila quelli previsti per il trimestre (-3,7% sull’analogo trimestre del 2021). Il dato negativo è imputabile soprattutto alla contrazione del commercio (-30% e -33,0%), seguito dai servizi media e comunicazione (-5,4% e -2,0%).

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Lavoro e Metaverso: quali sono le figure professionali del futuro?

È possibile pensare al Metaverso come a una rete di mondi virtuali tridimensionali, all’interno dei quali gli avatar (e ogni persona che vi accederà avrà un avatar) potranno interagire tra loro, parlare, discutere di un nuovo progetto, condividere informazioni o fare affari. Attualmente l’impatto mediatico del Metaverso è maggiore rispetto a quello economico: lo ha sottolineato in occasione del Milano Marketing Festival, Sir Martin Sorrell, già fondatore di WPP nonché ceo di S4 Capital. Di fatto, le Big Tech, come Facebook o Microsoft stiano concentrando sempre più attenzioni e investimenti nello sviluppo di mondi virtuali. O, per l’appunto, di metaversi. E questi, quando si diffonderanno, cambieranno concretamente il modo di lavorare.

Nuove forme immersive di collaborazione

In un mondo in cui lo smart working è ormai parte della ‘normalità’, il Metaverso può rimodellare il concetto stesso di lavoro a distanza, creando nuove forme immersive di collaborazione. Il Metaverso, però, non si creerà e non si svilupperà da solo: parallelamente al suo impatto sul mondo del lavoro, questo nuovo universo virtuale impatterà anche sul mercato del lavoro, con l’aumento importante delle ricerche di figure ben definite.
“Non si tratterà della nascita da zero di nuove figure professionali – spiega Carola Adami, fondatrice di Adami & Associati, società internazionale di selezione del personale – quanto invece della specializzazione di figure già esistenti”.

Sviluppatori, ingegneri, designer, creatori digitali ed esperti di cyber security

“Prima di tutto – prosegue l’head hunter – serviranno professionisti in grado di costruire sia gli spazi virtuali sia i prodotti che li comporranno. Ecco allora che le aziende attive nel Metaverso avranno la necessità di poter contare su sviluppatori, ingegneri, designer e creatori digitali, tutti profili che nei prossimi anni saranno quindi ancora più ricercati di quanto avviene oggi”.
Il mondo virtuale del Metaverso non deve però essere unicamente creato, deve essere anche gestito e protetto, soprattutto dalle minacce esterne. Ecco quindi che il Metaverso incrementerà ulteriormente le ricerche di esperti di cyber security, “capaci di ridurre al minimo le falle degli spazi virtuali, per mettere al sicuro sia i dati dei singoli utenti del Metaverso sia quelli delle imprese”, sottolinea Adami.

Conseguenze importanti anche nel mondo del gaming e del turismo

“Sarebbe infine sbagliato pensare al Metaverso unicamente come a un luogo per ottimizzare il lavoro da remoto – puntualizza ancora Carola Adami -. Ci saranno conseguenze importanti anche nel mondo della socialità, del gaming e persino del turismo. Non è fantascienza: tra qualche anno potremmo effettivamente essere alla ricerca di architetti per la realizzazione di sale meeting virtuali, e allo stesso tempo, di consulenti di viaggio virtuali”. 

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Italiani più vecchi, ed è boom per le creme antietà

Se in piena pandemia i prodotti più usati erano quelli per disinfettare le mani, ora in calo del -33% di vendite nella grande distribuzione, levando le mascherine abbiamo visto quanto siamo invecchiati. Creme, maschere e gel antirughe nell’ultimo anno sono tra i preferiti nei carrelli della spesa degli italiani. Lo skincare è infatti una categoria tra le più vendute, e anche quella che sta subendo un veloce processo di ‘democratizzazione’ verso prezzi più bassi e qualità più elevata. I prodotti dedicati allo skincare pesano infatti per oltre il 17% dei consumi di cosmetici degli italiani, con 1.510 milioni di euro spesi e una crescita dei consumi del +9,3%. Lo segnalano gli analisti NielsenIQ che hanno partecipato alla presentazione del 54° rapporto annuale a cura del Centro Studi di Cosmetica Italia, l’associazione nazionale delle imprese cosmetiche.

Nuove marche si affacciano sul mercato

“Stiamo invecchiando – dichiara Alessandra Coletta, analista NielsenIQ – e nei prossimi dieci anni il cambiamento sarà ancora più evidente, con un picco che si sposterà a 56-70anni. Questo significa che le industrie beauty si dedicheranno sempre di più alle famiglie più vecchie e meno verso quelle con bambini”.
Nonostante le fragranze stiano trainando i fatturati in termini di valori in tutti i paesi europei, “si tratta di un effetto legato a diversi elementi, in primis l’aumento dei prezzi – precisa Sylvie Cagnoni, di NDP -. La vera rivelazione dell’anno sono i prodotti dello skincare, che in termini di volumi sono la categoria più dinamica, crescendo in termini di pezzi venduti con nuove marche e un posizionamento più democratico”.

La democratizzazione dello skincare si vede anche in profumeria

La cura della pelle è quindi al centro delle nostre attenzioni e trova risposte soprattutto sui social. TikTok, Instagram e Youtube sono le piattaforme più battute da influencer e celebrities per spiegare i vantaggi dei loro nuovi brand ‘democratici’. La democratizzazione dello skincare si vede anche in profumeria, trainata da nuovi brand, emergenti, innovativi e spesso ideati dalle celebreties che hanno invaso il mercato. Questo significa prezzi più bassi, ma anche creme originali, ben formulate ed efficaci, che si affiancano ai sieri di brand iconici riconosciuti in tutto il mondo, ma dai prezzi molto più alti, riporta Ansa.

Ingredienti e ‘ricerca’ scientifica i componenti fondamentali dei prodotti

Insomma, i nuovi brand specializzati in skincare stanno sfidando i marchi più rinomati puntando all’aspetto clinico, ovvero all’uso di ingredienti testati, con una solida base scientifica e clinica, frutto di tecnologia e ricerca. Ingredienti e ‘ricerca’ scientifica sono quindi le componenti fondamentali dei prodotti.
“Poi ci sono i prodotti ideati per pelli sensibili, per la difesa della pelle in città inquinate, contro le aggressioni climatiche – continua Cagnoni -. I nuovi sieri si fondono anche col make-up con la nascita di prodotti ad effetto ‘glow’, ibridi tra trattamento e trucco, che scalzano i classici fondotinta”.

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